11/06/2020
In seguito ai più recenti avvenimenti che hanno visto protagonisti rabbia e frustrazione al dominio dell’intelletto, ho deciso di affrontare una tematica calda ma mai sufficientemente ardente, quella del razzismo. In questi mesi abbiamo visto il sud scagliarsi alla ribalta contro il nord e poi di nuovo il nord verso la sua rivalsa dai soprusi del sud. Abbiamo visto un Italia coesa come forse mai lo era stata nell’ideale di una condivisione dei valori, dei significati e delle sofferenze per poi vederla nuovamente divisa tra il dilemma del noi e voi, del loro e noi. Abbiamo visto un mondo che dal giudicarsi si è ritrovato a consultarsi, per poi spesso ricadere sui propri passi. Abbiamo imparato il vero senso della condivisione per la quale i social erano stati in origine pensati e siamo stati in grado di sfruttarli con iniziative e attività di ogni genere. Fino a quando non ci siamo ritrovati ad assistere in diretta alle atrocità di una mentalità normalizzata, di una violenza agita probabilmente senza troppa consapevolezza a discapito dell’umanità. Ma da dove derivano questi comportamenti che ci portano ad affermare il noi a discapito del loro? Verso la metà degli anni 50, Henry Tajfel, psicologo di origine ebraica vissuto in epoca nazista, vinse una borsa di studio per indagare le dinamiche sottostanti la formazione degli stereotipi ed il loro mantenimento. Egli osservò come il nostro sistema cognitivo, sembrerebbe aver sviluppato delle modalità di decodifica delle informazioni, che faciliterebbero l’elaborazione dei numerosi stimoli provenienti dall’ambiente esterno attraverso la loro semplificazione in categorie distinte. Questi processi di categorizzazione, probabilmente sviluppatisi a scopi evoluzionistici, porterebbero a raggruppare automaticamente le informazioni facilitandone l’elaborazione e permettendoci nell’immediato di definire se un dato stimolo possa o meno costituire una minaccia. Lo stereotipo sembrerebbe dunque frutto di un processo finalizzato alla sopravvivenza che facilita la nostra interazione con il mondo nella quotidianità. Egli osservò inoltre come il senso di appartenenza ad un gruppo (il noi) andasse ad influire sul comportamento del singolo, inducendolo alla discriminazione e sminuimento dell’altro gruppo (il loro), nel tentativo di migliorare lo status del proprio gruppo di appartenenza, aumentando l’immagine di sé. Questi processi definiti dalla teoria dell’identità sociale, sono noti come dinamiche dell’ingroup e dell’outgroup in cui l’uno cercherà discriminare l’altro al fine di emergere. Sottostanti questi processi in fin dei conti automatici, affondano le loro radici i comportamenti discriminatori che ritroviamo nel razzismo. Ai giorni d’oggi sono tante le identità che ci troviamo ad assumere nella società: io di destra, io di sinistra, io dipendente, io imprenditore, io uomo, io donna, io bianco, io nero. Tutte queste categorizzazioni sembrerebbero dare origine a quei dibattiti cui ci troviamo ad assistere quotidianamente in cui il noi si ritrova a screditare il voi alla salvaguardia dell’io. Ma se si trattasse di comportamenti dettati da sensazioni primordiali, la razionalizzazione non potrebbe rielaborare questi stereotipi rivalutandone la valenza? Se la sensazione di minaccia che porta all’attacco allo scopo ultimo della difesa si rivelasse in realtà fittizia? Non potremmo tornare sui nostri passi e focalizzarci non più sulla competizione ma sulla cooperazione? Se le nostre dinamiche relazionali, guidate dai sistemi operativi interni descritti da Liotti, sembrerebbero basate su comportamenti automaticamente attuati, l’utilizzo della ragione e dell’auto-osservazione non potrebbero aiutarci a fare un passo in dietro? Molte di queste dinamiche, per quanto talvolta emergano aldilà della nostra consapevolezza, potrebbero in realtà essere osservate, analizzate e rivalutate per dare spazio ad un processo intenzionale in cui siamo noi a scegliere come interpretare gli eventi. Attraverso il ragionamento critico abbiamo la possibilità di comprendere. Abbiamo la possibilità di crescere, di fare esperienza e di apprendere lasciando spazio alla possibilità di un apertura e di un cambiamento.
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